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La censura prospettata all’attenzione della Suprema Corte afferisce la validità di un atto di donazione compiuto da una società di capitali. La Corte cioè è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla presunta nullità “genetica” di un atto di donazione derivante dall’incompatibilità tra la “causa” dell’atto di liberalità e la causa del contratto di società.

Secondo la tesi prospettata dal ricorrente, infatti, vi sarebbe un’incompatibilità tra le due cause: (i) quella del “negozio donativo”, coincidente con lo spirito di liberalità, considerato causa della donazione per la sua funzione di giustificazione giuridica dell’attribuzione e (ii) quella del negozio societario, che consiste, ex art. 2247 c.c., nell’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili, e, quindi, nel cd. scopo lucrativo, con incidenza sul principio della tipicità delle forme giuridiche societarie (art. 2249 c.c.), quale limite all’esercizio del potere di autonomia privata.

La donazione posta in essere da una società sarebbe pertanto affetta da un vizio della causa diverso dalla contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico, al buon costume (art. 1343 c.c.), ma derivante dalla incompatibilità tra le cause di due contratti (quello donativo e quello societario).

Per la Suprema Corte (cfr. Sentenza allegata) la tesi della incompatibilità delle cause non è altro che la  riproposizione della tesi tradizionale,  sostenuta “in anni lontani” dalla dottrina, che escludeva l’ammissibilità delle donazioni da parte di società, in considerazione della incompatibilità di tali atti sia con l’oggetto sociale (l’esercizio di attività economica ex art. 2247 c.c.) sia con lo scopo, di realizzare utili da dividere tra i soci, essendo incompatibili liberalità ed utilità, con conseguente limite alla capacità di agire nel senso della incapacità di donare.

In sostanza, per la citata dottrina, la società potrebbe compiere solo atti rientranti nel proprio oggetto sociale.

Secondo gli Ermellini però, oggigiorno la tesi nettamente prevalente riconosce, alle società, come a tutte le persone giuridiche, capacità generale, ossia la capacità di essere parte di qualsiasi atto o rapporto giuridico, anche non inerente l’oggetto sociale, tranne, ovviamente, quegli atti che presuppongono l’esistenza di una persona fisica.

A sostegno, di quanto sopra si annoverano argomenti vari e convincenti quali:

  • la considerazione che la capacità giuridica non ammetterebbe graduazioni, nel senso che o sussiste per intero o non sussiste;
  • le difficoltà che sorgerebbero nel determinare i limiti della capacità funzionale, dato che anche atti apparentemente estranei allo scopo sociale potrebbero essere strumentalmente utili al raggiungimento dello stesso;
  • la mancanza di qualsiasi espressa limitazione nelle norme che attribuiscono la capacità giuridica (nella specie art. 2331 c.c.).

Da quanto sopra consegue pertanto, che l’oggetto sociale non costituisce, un limite alla capacità della società, ma piuttosto un limite al potere deliberativo e rappresentativo degli organi sociali.

In conclusione, le società non hanno una capacità speciale limitata al compimento di quegli atti strumentali rispetto all’oggetto sociale, ma una capacità generale, di essere parte di qualsiasi atto o rapporto giuridico, anche non rientrante nell’oggetto sociale, tranne quelli che presuppongono l’esistenza di una persona fisica e l’oggetto sociale non è altro che un limite ai poteri degli organi societari.

In aggiunta a quanto sopra,  la Corte evidenzia infine come il suddetto principio

  •  è stato già affermato dalla Corte di legittimità la quale, sia pure con decisione molto risalente nel tempo ha affermato che «Non avendo la legge stabilito delle specifiche limitazioni, le società hanno capacità giuridica e capacità di agire generale, talché la determinazione dell’oggetto sociale nell’atto costitutivo non comporta alcuna limitazione alla capacità delle società stesse; queste, pertanto, rimangono capaci anche se trascendono e perfino se tradiscono il loro scopo» (Cass. n. 2224 del 1968).
  • non  è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che, nelle diversificate applicazioni, soprattutto in riferimento agli artt. 2384 e 2384 bis c.c., (Cass. n. 12325 dei 1998; n. 2001 del 1996) ha dato per presupposto la generale capacità giuridica e di agire delle società, anche rispetto ad atti a titolo gratuito o con spirito di liberalità, salva la tutela dei terzi, e dei creditori, alle condizioni stabilite, e salva la responsabilità varia degli amministratori.