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In assenza di una definizione normativa, la giurisprudenza di legittimità e quella di merito hanno, nel corso degli anni, elaborato una puntuale e dettagliata definizione di mobbing

Dunque, che cos’è il mobbing e quando si configura?

Alla luce dei numerosi interventi giurisprudenziali, può, oggi, pacificamente essere definito “mobbing” quella condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.

Il mobbing è, dunque, configurabile ogni qualvolta ricorrano l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro, quello soggettivo, ravvisabile nell’intento persecutorio nei confronti della vittima, l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente ed infine il nesso eziologico (nesso causale) tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore.

Alla presenza degli elementi costitutivi della fattispecie di mobbing il datore di lavoro incorre nell’ipotesi di responsabilità ex art. 2087 cod. civ. con conseguente dovere di risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. nei confronti del lavoratore.

E se la condotta vessatoria o discriminatoria posta in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico esula dalla sistematicità e reiterazione?

Come ha avuto modo di chiarire a più riprese la Corte di Cassazione l’ambito di responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio alla salute e alla personalità morale del lavoratore ex art. 2087 cod. civ. è ben più ampio di quello occupato dalla specifica fattispecie di mobbing.

Ciò comporta che la riscontrata assenza degli estremi del mobbing non fa venire meno la necessità di valutare e accertare, da parte del giudice, l’eventuale responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui il fatto dallo stesso commesso, seppur isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore quali la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica.

È proprio in questi casi che si parla di Straining.

Lo straining (letteralmente “stressare”, “mettere in tensione”) rappresenta dunque una forma attenuata di mobbing in quanto ipotesi priva del requisito della continuità delle vessazioni ma pur sempre riconducibile all’art. 2087 cod. civ., sicché, se lo stesso viene accertato, la domanda di risarcimento del danno da parte del lavoratore deve essere accolta.

In caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice di merito deve pertanto accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro a titolo di straining, qualora i singoli episodi di ostilità nei confronti del lavoratore (tra loro non unificati dall’intento persecutorio) abbiano inciso sulla salute e personalità morale dello stesso.

Responsabilità del datore di lavoro per aver omesso di impedire che l’ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori

Con l’Ordinanza n. 4279 del 16 febbraio 2024 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha fatto un ulteriore passo in avanti in materia di tutela della salute e personalità morale dei lavoratori e relativa responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro.

La Suprema Corte ha statuito che è da considerarsi illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno e, dunque, fonte di danno alla salute dei lavoratori e ciò indipendentemente dal fatto che l’art. 2087 cod. civ. non contempli un’ipotesi di responsabilità oggettiva.

Ciò in quanto il datore di lavoro ha il dovere di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro e tra queste misure vi rientrano anche quelle tese a rimuovere un clima lavorativo teso e caratterizzato da incomprensioni.

In tali casi grava sul lavoratore l’onere della prova circa la sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro stressogeno ed il danno subito, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie alla tutela della salute del lavoratore e alla rimozione di fattori stressogeni, ivi compresi i comportamenti di altri dipendenti.