Skip to main content

Ad affermarlo sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la Sentenza n. 8230 del 22.3.2019, sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale afferente l’interpretazione della sanzione della nullità prevista dalla normativa di settore in materia di trasferimenti immobiliari abusivi.

Disciplina urbanistica

L’esercizio dello jus aedificandi, pur atteggiandosi come una concreta e peculiare manifestazione del diritto di proprietà fondiaria, soggiace all’osservanza di molteplici limitazioni e prescrizioni connesse a determinazioni della pubblica autorità. Limitazioni  originariamente previste negli artt. 86-92 della L. n. 2359 del 1865, e poi codificate, in via generale, dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150 – Legge Urbanistica– che, all’art. 31, ha, appunto, imposto di richiedere apposita licenza per l’esecuzione di nuove costruzioni, l’ampliamento di quelle esistenti, la modifica di struttura o dell’aspetto dei centri abitati ed in presenza di piano regolatore comunale, anche nelle zone di espansione.

La legge 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. Legge Ponte) art. 10, nel sostituire il menzionato art. 31 della Legge Urbanistica, ha esteso l’obbligo della licenza edilizia a tutto il territorio comunale (nel centro abitato e fuori).

Successivamente la Legge 28 gennaio 1977, n. 10 (c.d. Legge Bucalossi) ha posto il principio secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la relativa esecuzione è subordinata a concessione da parte del sindaco.

La sostituzione della licenza con la concessione edilizia  non ha, peraltro, comportato modifiche sostanziali dal punto di vista giuridico, in quanto la nuova concessione a edificare non ha attribuito nuovi diritti, ma ha svolto una funzione sostanzialmente analoga all’antica licenza: accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio dello jus aedificandi (cfr. Corte Cost. n. 5 del 1980).

Con il Testo Unico dell’Edilizia di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sono stati definiti i vari tipi d’intervento edilizio, è stato previsto uno specifico titolo abilitativo per ciascuna tipologia d’intervento individuando la casistica in cui l’attività edilizia è completamente libera.

In particolare, la concessione edilizia è stata sostituita dal Permesso di Costruire, sono stati indicati gli interventi edilizi realizzabili mediante Segnalazione Certificata di Inizio di Attività (già Denuncia di Inizio Attività), sono stati codificati i lavori che si reputano eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni “essenziali” in base a specifici parametri regionali.

La nullità

L’inosservanza dei precetti posti dalla normativa urbanistica – sanzionata sotto un profilo amministrativo con la sospensione dei lavori,  la demolizione  o con l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale – ha avuto la sua prima disciplina in riferimento alla sorte degli atti tra privati aventi ad oggetto diritti reali su fabbricati irregolari sotto il profilo urbanistico con la L. n. 10 del 1977, il cui art. 15, co 7 così disponeva: “Gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione“. Tale disposizione che era stata preceduta dalla L. n. 765 del 1967, art. 10, che, nel modificare l’art. 31 della Legge Urbanistica, aveva disposto la nullità delle compravendite di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale nel medesimo caso in cui “da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza” di una lottizzazione autorizzata.

Successivamente la Legge 28 febbraio 1985 n. 47, denominata “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie” ed emanata appunto al duplice scopo di reprimere il fenomeno dell’abusivismo e di sanare il pregresso, ha rimodulato la sanzione di nullità, disponendo all’art. 17, co 1, che: “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell’articolo 13. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù“. Analogamente ha disposto il successivo art. 40, co 2, che, in relazione agli atti aventi per oggetto diritti reali (esclusi diritti di garanzia e servitù) riferiti a costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della legge stessa, ha previsto quali titoli abilitativi oggetto di dichiarazione dell’alienante la licenza e la concessione in sanatoria (che la legge introduceva), la domanda di concessione corredata dalla prova del versamento delle prime due rate dell’oblazione o la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che l’opera era stata iniziata prima del 2 settembre 1967.

Entrambe tali disposizioni hanno previsto (artt. 17, co 4, e 40, comma 3) la possibilità della “conferma” delle comminate nullità, nel caso in cui la mancata indicazione della concessione edilizia, ovvero la mancanza di dichiarazione o il mancato deposito di documenti, non fossero dipesi dall’inesistenza, al tempo della stipula, della concessione, o della domanda di concessione in sanatoria, o, ancora  dal fatto che la costruzione sia stata iniziata dopo il 2 settembre 1967: in tal caso, è stata prevista la possibilità della conferma degli atti, anche da una sola delle parti, mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, contenente la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda di concessione in sanatoria.

Il menzionato art. 17 della L. n. 47 del 1985 è stato abrogato (l’art. 40 è invece rimasto in vigore) dall’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 a far data dalla sua entrata in vigore, ma è stato sostanzialmente riprodotto dall’art. 46 del medesimo d.P.R. n. 380, intitolato “Nullità degli atti giuridici relativi ad edifici la cui costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17 marzo 1985 (legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 17; decreto-legge 23 aprile 1985, n. 146, art. 8)” secondo cui: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù“. Il comma 4 della norma in esame prevede, anch’esso, la possibilità di conferma nell’ipotesi in cui la mancata indicazione nell’atto degli estremi del titolo non sia dipesa dall’inesistenza del titolo stesso.

Va aggiunto, per completezza, che il discrimen temporale tra la legge n. 47 del 1985 ed il TU sull’edilizia (costruzioni realizzate prima e dopo il 17.3.1985) è stato superato per effetto di due successivi condoni, introdotti con L. n. 724 del 1994  e col DL n. 269 del 2003, convertito dalla L. n. 326 del 2003  per alcune tipologie di fabbricati ed irregolarità edilizie in riferimento ad abusi rispettivamente commessi fino al 31 dicembre 1993 e fino al 31 marzo 2003.

L’orientamento della Suprema Corte

Nell’ipotesi di compravendita di edifici o parte di essi la vigente disciplina impone che nell’atto notarile si dia conto della dichiarazione dell’alienante contenente gli elementi identificativi dei titoli edilizi, mentre la sanzione di nullità e l’impossibilità della stipula sono direttamente connesse all’assenza di siffatta dichiarazione.

Per le Sezioni Unite, infatti, l’orientamento giurisprudenziale che ritiene affetti da nullità gli atti aventi ad oggetto il trasferimento di immobili non in regola dal punto di vista urbanistico  non è ossequiosa del fondamentale canone di cui all’art. 12, comma 1, delle Preleggi, che impone all’interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione. La lettera della norma costituisce, infatti, un limite invalicabile dell’interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis (cfr. Cass. n. 12144 del 2016).

Da tanto, consegue che la nullità comminata dalle disposizioni in esame non può esser sussunta nell’orbita della nullità c.d. virtuale di cui al comma 1 dell’art. 1418 c.c., che presupporrebbe l’esistenza di una norma imperativa ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili, e tale divieto non trova riscontro in seno allo jus positum, che, piuttosto, enuncia specifiche ipotesi di nullità.

Né la conclusione può fondarsi nella previsione della conferma degli atti nulli, mediante la redazione di un atto aggiuntivo, contemplata per l’ipotesi in cui la mancata indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del permesso di costruire al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati  in quanto tale conferma e l’atto aggiuntivo che la contiene presuppongono, bensì, che il titolo e la documentazione sussistano, ma, di per sé, non implicano che l’edificio oggetto del negozio ne rispecchi fedelmente il contenuto.

La soluzione adottata delle Sezioni Unite

La nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità «testuale», con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi  ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile.  In presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.

Per la Suprema Corte, la tesi adottata non è, peraltro, dissonante rispetto alla finalità di contrasto al fenomeno dell’abusivismo edilizio, costituendo uno dei mezzi predisposti dal legislatore per osteggiare il traffico degli immobili abisuvi. Per effetto della prescritta informazione, l’acquirente, utilizzando la dovuta diligenza è, infatti, posto in grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità urbanistica del bene, e così valutare la convenienza dell’affare, anche, in riferimento all’eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo dichiarato.

Tale approdo ermeneutico, per la Cassazione:

  • ha il pregio di render chiaro il confine normativo dell’area della non negoziabilità degli immobili, a tutela dell’interesse alla certezza ed alla sicurezza della loro circolazione;
  • rappresenta la sintesi tra le esigenze di tutela dell’acquirente e quelle di contrasto all’abusivismo. In ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e stato della costruzione, l’acquirente non sarà esposto all’azione di nullità, con conseguente perdita di proprietà dell’immobile ed onere di provvedere al recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i presupposti, potrà soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso alle prescrizioni della disciplina urbanistica.