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Nel mondo del lavoro sempre più spesso si sente impropriamente parlare di “mobbing” e “straining”.

Facciamo, quindi, un pò di chiarezza, con particolare riferimento agli elementi caratterizzanti tali condotte, dalla cui sussistenza sorge il diritto del dipendente di agire a tutela della propria integrità psicofisica.

Il “mobbing”

Il “mobbing” è caratterizzato da due elementi qualificanti:

i) oggettivo, ossia una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro

ii) soggettivo: ossia l’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (cfr. Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684).

Ciò, a prescindere dall’illegittimità di ciascun comportamento, in quanto è la connotazione intenzionale a determinare l’illiceità anche di condotte astrattamente legittime.

Pertanto, volendo sintetizzare, i tratti individualizzanti del mobbing, come tratteggiati dalla Corte di Cassazione nel tempo sono i seguenti:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi:

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio che unifica tutti i comportamenti lesivi (cfr. Cass. n. 28858 del 2008; Cass. n. 3785 del 2009; Cass. n. 18927 del 2012; Cass. n. 17698 del 2014; Cass. n. 24029 del 2016; Cass. n. 12437 del 2018; Cass. n. 24883 del 2019; v. anche Corte Cost. n. 359 del 2003).

Tuttavia, non ogni inadempimento genera necessariamente un danno, per cui, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da colui che assume aver subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica (cfr. Cass. civile, sez. lav., 23/03/2020, n. 7487).

Lo “straining”

Diversamente dal mobbing, lo “straining” si configura quando in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie (cfr. Cass. 10 luglio 2018, n. 18164).

Pertanto, anche nel caso in cui manchi la continuità e la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n. 18164 del 2018) o le stesse siano comunque limitate nel numero (Cass. n. 7844 del 2018), può comunque giustificarsi la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. da parte del dipendente, nel caso in cui si accerti che le condotte datoriali inadempienti risultino comunque produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore.

Lo straining, dunque, rappresenta una forma attenuata di mobbing, nella  quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, potendo la condotta nociva essere realizzata anche con un’unica azione isolata o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici per il dipendente (es. applicazione di plurime sanzioni illegittime; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale).

Avv. Sergio Patrone

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