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In caso di rifiuto del dipendente di variare il proprio orario di lavoro, il licenziamento è legittimo solo ove non sia stato intimato in conseguenza di tale rifiuto ma vi siano effettive esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può più essere mantenuta.

È questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione (ordinanza 30093 del 30.10.2023) la quale si è pronunciata su un licenziamento di una lavoratrice che era stato giustificato dal datore di lavoro sulla base del rifiuto della variazione oraria da parte della dipendente nonché sull’incompatibilità dell’orario di lavoro con le mutate esigenze aziendali.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte, infatti, ha fatto chiarezza sul difficile equilibrio tra il divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuta il mutamento della fascia oraria del part-time (o altra variazione oraria), e l’eventuale insorgenza del giustificato motivo provocato da tale rifiuto, che potrebbe consentire un licenziamento per ragioni oggettive, affermando che tale equilibrio deve essere garantito attuando il contemperamento dei rispettivi interessi delle parti.

La Corte ricorda che in materia di lavoro part-time, qualunque mutamento dell’orario di lavoro concordato formalmente tra le parti (sia il passaggio da part-time a full time o viceversa, sia una variazione della fascia oraria del part-time o l’introduzione di una clausola elastica o flessibile o la richiesta di lavoro supplementare) presuppone l’accordo tra le parti e, dunque, il consenso del lavoratore. Inoltre, il Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 5 prevede che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in parziale, o viceversa “non costituisce giustificato motivo di licenziamento“. Nello stesso senso si esprime il Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 6, comma 8, secondo il quale “il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Sulla scorta di tali principi, i Giudici di legittimità hanno affermato che “le esigenze organizzative che sottostanno alla richiesta di variazione dell’orario non possono rilevare, di per se’, come ragione oggettiva – esclusiva ed autosufficiente – di licenziamento, perché questo significherebbe cancellare di fatto la protezione legale che consente al lavoratore di opporre un legittimo rifiuto alla proposta datoriale di cambiamento dell’orario di lavoro, rifiuto che non può’ trasformarsi – con aperta contraddizione della normativa – in automatico presupposto del suo licenziamento”.

Tuttavia, neppure può precludersi al datore di lavoro l’esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di trasformazione entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 3 possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In tal caso, tuttavia, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare non solo la sussistenza delle esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non puo’ essere piu’ mantenuta, nonche’ il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento (Cass., sentenza n. 21875/2015, Cass. sentenza n. 23620/2015; Cass., sentenza n. 9310/2001; Cass., sentenza n. 3030/1999), nonché dimostrare che non esistano ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie) rispetto a quelle prospettate al lavoratore e poste alla base del licenziamento.

Perché è stato accolto il ricorso

Nel caso di specie, dunque, la Cassazione ha accolto il ricorso in quanto il licenziamento intimato alla dipendente, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte di appello, non risultava essere rispondente ai principi sin qui richiamati in quanto “nulla si dice nella sentenza impugnata in ordine al fatto che, oltre a non potersi mantenere lo schema dell’orario precedente, non esistesse un altro orario diverso che potesse essere offerto come alternativa al licenziamento”, essendo di contro emerso nel corso del giudizio l’esistenza di flessibilità e di alternative occupazionali.