Skip to main content

Il lavoro agile (c.d. smart working) consiste in una particolare modalità di esecuzione della prestazione lavorativa che trova la sua disciplina nella Legge n. 81 del 2017 la quale lo definisce: “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento della attività lavorativa».

A seguito dell’emergenza coronavirus, il legislatore, con il D.L. n. 9 del 23 febbraio 2020, è intervenuto ha incentivato l’utilizzo del lavoro agile “quale ulteriore misura per contrastare e contenere l’imprevedibile emergenza epidemiologica”.

In tale ottica, pertanto, il successivo D.P.C.M. 8 marzo 2020, all’art. 2, lett. r), considerata l’urgenza dettata dalla situazione di emergenza, ha espressamente previsto alcune deroghe alla disciplina legale dello smart working, ovvero:

a) l’applicabilità dello smart working anche in assenza di accordi individuali, con la conseguente possibilità del datore di lavoro di collocare il lavoratore in modalità agile anche senza il consenso di quest’ultimo;

b) la possibilità per il datore di lavoro di assolvere gli obblighi di informativa sui rischi generali e specifici connessi allo smart working in via telematica.

Tali deroghe trovano applicazione per tutta la durata dello stato di emergenza Covid-19 e, dunque, fino al 31 luglio 2020.

In tale scenario, dunque, ci si deve interrogare, anche a seguito dei numerosi quesiti pervenuti, se sussista o meno per il lavoratore un diritto a rendere la prestazione in smart working nel caso in cui il datore di lavoro abbia negato tale modalità di svolgimento del rapporto.

Per rispondere al quesito, è necessario innanzitutto operare una distinzione tra pubblico impiego e lavoro privato.

A) Pubblico impiego

Per i lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, l’art. 1, comma 1, n. 6) del D.P.C.M. 11 marzo 2020 prevede espressamente che lo smart working rappresenta la “modalità ordinaria” di esecuzione della prestazione lavorativa e che tale modalità può essere adottata anche in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi di cui alla Legge 22 maggio 2017,  n.  81.

Le pubbliche amministrazioni, inoltre, devono specificare le attività “indifferibili” da rendere “in presenza”, ossia quelle attività per le quali il lavoro agile è incompatibile ed è, dunque, necessaria la presenza fisica del lavoratore presso la sede di lavoro.

Nel pubblico impiego, dunque, il lavoro “in presenza” costituisce un’eccezione.

Da quanto sopra discende, evidentemente, la sussistenza di un diritto soggettivo del lavoratore pubblico a rendere la prestazione in modalità smart working, diritto che potrà pertanto essere rivendicato, anche in via giudiziale, dal lavoratore in caso di rifiuto/diniego del datore di lavoro pubblico all’adozione del lavoro agile. Ciò a condizione, evidentemente, che non si tratti di un’attività lavorativa indifferibile da rendere “ in presenza” e, dunque, direttamente presso la sede di lavoro.

B) Lavoro privato

Con riferimento, invece, ai lavoratori privati, il D.P.C.M. 11 marzo 2020, se da un lato non prevede vincoli per il datore di lavoro in ordine all’adozione del lavoro agile, dall’altro lato, tenuto conto della grave emergenza epidemiologica, auspica il “massimo utilizzo” dello smart working, trattandosi di una misura volta evidentemente a contrastare la diffusione del virus nei luoghi di lavoro.

Tuttavia, affinché sia concretamente possibile l’adozione dello smart working, è necessario che il datore di lavoro sia in possesso degli strumenti tecnici che consentano al lavoratore di rendere la prestazione lavorativa in modalità agile.

Sotto tale profilo, dunque, è opportuno effettuare una distinzione in quanto, nel caso in cui il datore di lavoro non possegga i predetti strumenti tecnici, è da escludersi la sussistenza di un obbligo datoriale di acquisirli, tenuto conto anche di quanto previsto dalle richiamate disposizioni normative, così come è escluso che il lavoratore possa pretendere l’acquisizione da parte del datore di lavoro.

Diverso discorso deve essere fatto, invece, nel caso in cui il datore di lavoro sia già dotato degli strumenti tecnici che consentano al lavoratore di svolgere la prestazione in modalità agile. In tal caso, infatti, qualora la tipologia di attività lo consenta, è possibile affermare che sussista un vero e proprio diritto soggettivo del lavoratore allo smart working. Conseguentemente, un eventuale rifiuto/diniego da parte del datore di lavoro – così come l’adozione dello smart working soltanto per un periodo determinato – sarebbe illegittimo in quanto immotivato e ingiustificato.

Ad avvalorare quanto finora esposto è anche la circostanza per la quale il lavoratore, qualora si vedesse negato il diritto di lavorare in modalità agile (pur sussistendone i presupposti), potrebbe verosimilmente subire un pregiudizio alla salute, in modo particolare nelle aziende in cui il rischio di contagio è più elevato, ovvero nei casi in cui nei luoghi di lavoro siano assenti misure idonee a scongiurare tale rischio.

Ciò sarebbe in aperto contrasto con l’auspicio del legislatore il quale, come detto in precedenza, ha qualificato lo smart working una misura di sicurezza finalizzata proprio a scongiurare il rischio di contagio nei luoghi di lavoro, oltre che di contenimento l’emergenza epidemiologica.

Sul punto, deve ricordarsi che l’obbligo di tutelare la salute dei lavoratori è sancito anche dall’art. 2087 del codice civile, che pone a carico del datore di lavoro l’adozione, nei luoghi di lavoro, delle adeguate e più opportune misure di sicurezza per la salvaguardia dell’integrità psicofisica dei lavoratori. La tutela del lavoratore, dunque, rappresenta evidentemente un punto cardine dell’ordinamento giuridico.

Alla luce di quanto finora esposto, quindi, è possibile affermare che, in caso di inadempimento datoriale, consistente nella mancata adozione di misure di sicurezza adeguate e necessarie alla tutela della salute del lavoratore – tra cui rientra, evidentemente, anche la mancata adozione dello smart working laddove ne sussistano i presupposti e le condizioni –  il lavoratore avrà diritto di agire giudizialmente nei confronti del datore di lavoro, anche in via di urgenza, al fine di vedersi riconosciuto il diritto a rendere la prestazione in modalità agile, oltre al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’inadempimento datoriale. In tal caso, sarà il datore di lavoro a dover fornire in giudizio la prova che la prestazione lavorativa del dipendente sia incompatibile con la modalità di lavoro agile, ovvero che non sussistano le condizioni, sotto il profilo tecnico, per adottare lo smart working.

Da ultimo, il lavoratore, a fronte del rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di adottare lo smart working, pur in presenza dei presupposti, potrà legittimamente rifiutare di rendere la prestazione lavorativa, ai sensi dell’art. 1460 c.c., soprattutto in quei casi in cui presso la sede di lavoro non vi siano adeguate misure di sicurezza a tutela della salute del lavoratore. In tal caso, infatti, può ritenersi che il rifiuto della prestazione lavorativa sia proporzionato a fronte dell’inadempimento datoriale e della violazione del dovere di protezione sancito dall’art. 2087 c.c..

 Leggi l’articolo su “Il Giornale delle PMI