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Secondo il ragionamento della Suprema Corte, infatti, qualora il de cuius abbia disposto delle proprie sostanze attraverso donazioni o mediante disposizioni testamentarie, venendo a ledere i diritti riservati ai legittimari, questi ultimi possono agire giudizialmente per la tutela dei propri diritti mediante l’azione di riduzione (art. 553 c.c.e ss.gg.) che è il mezzo attributo al legittimario per far dichiarare l’inefficacia (totale o parziale) delle disposizioni eccedenti la quota di cui il de cuius poteva liberamente disporre.

In alternativa alla via giudiziale il legittimario pretermesso e/o leso può addivenire ad un accordo negoziale con i beneficiari delle disposizioni lesive, al fine di vedere ripristinati i propri diritti. Tale accordo non è tipizzato dal legislatore il quale ha rimesso all’autonomia privata l’individuazione del concreto assetto negoziale attraverso il quale raggiungere il risultato voluto.

A tale tipologia di accordi viene generalmente attribuita natura non transattiva, ma meramente ricognitiva, di accertamento, in quanto i soggetti interessati riconoscono l’inefficacia delle disposizioni testamentarie lesive.

La qualificazione di simili accordi  in termini di transazione richiederebbe invece  l’esistenza dell’elemento delle reciproche concessioni, che il codice civile (art. 1965 c.c.) prevede come essenziale, e che secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 7548/2003), deve desumersi dallo stesso contenuto dell’atto, volto a prevenire una lite per l’esperimento dell’azione di riduzione, ovvero a mettere fine alla lite medesima.

Sul punto il  D.Lgs. n. 346 del 1990, art 43, dispone “Nelle successioni testamentarie l’imposta si applica in base alle disposizioni contenute nel testamento, anche se impugnate giudizialmente, nonché agli eventuali accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari, risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata salvo il disposto, in caso di accoglimento dell’impugnazione o di accordi sopravvenuti, dell’art. 28, comma 6, o dell’art. 42, comma 1, lett. e)”.

Detta norma  sancisce dunque una sorta di neutralità fiscale del negozio tra vivi, risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, successivo all’apertura della successione,  volto alla reintegra dei diritti dei legittimari, in quanto lo sottrae dall’ambito di applicazione dell’ordinaria imposta di registro, per assoggettarlo all’imposta di successione, in coerenza con l’effetto che gli è proprio, l’acquisto ex lege (a causa di morte) della quota di legittima del patrimonio del defunto, tant’è che esso va trascritto, ai sensi dell’art. 2648 c.c., comma 3, dell’art. 2650 c.c., nonché annotato, ai sensi dell’art. 2655 c.c., ai margini della trascrizione dell’originario acquisto lesivo, al fine di assicurare la continuità delle trascrizioni;

Diverso è invece il caso in cui il legittimario leso nei propri diritti opti per un negozio avente natura transattiva di cui agli artt.li 1965 c.c. e ss. In tale caso, infatti, la tassazione  seguirà le ordinarie regole in tema di imposta di registro, avuto riguardo ai concreti effetti  – anche eventualmente traslativi/immobiliari – voluti dalle parti contraenti in quanto le attribuzioni concordate tra gli interessati non hanno natura sostanzialmente ereditaria, e non sono soggette, quindi, all’applicazione dell’imposta sulle successioni, ma si inseriscono, attraverso il meccanismo delle reciproche concessioni, nella composizione di una lite, attuale o futura, originata da una pretesa lesione dei diritti di legittima, secondo le contrapposte tesi delle parti.