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Con il provvedimento in commento (Sentenza n. 25195 pubblicata in data 17.9.2021) la Cassazione ha fornito alcuni chiarimenti in materia di servitù irregolari.

Per gli Ermellini, infatti, in materia di “servitù irregolari” possono individuarsi due distinti orientamenti giurisprudenziali, e precisamente:

  • un primo indirizzo ha stabilito che le convenzioni costitutive di servitù “personali” o  “irregolari”, aventi come contenuto limitazioni della proprietà del fondo altrui a  beneficio di un determinato soggetto e non di un diverso fondo, devono ritenersi  disconosciute dal codice vigente, come da quello abrogato del 1865, essendo dirette a  realizzare un interesse non meritevole di tutela perché concretizzantesi in una mera  comodità, del tutto personale, di coloro che accedono al preteso fondo servente, ma  non in un’utilità oggettiva, pur se indiretta, del fondo dominante (cfr. Cass. n.  2233/1951, Cass. n. 16342/2002; Cass. n. 23708/2014 e Cass. n. 5603/2019);
  • un secondo indirizzo ha ritenuto che in base al principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c., è consentito alle parti di sottrarsi alla regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui attraverso la costituzione di rapporti meramente obbligatori; pertanto, invece di prevedere l’imposizione di un peso su un fondo (servente) per l’utilità di un altro (dominante), in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una “qualitas fundi”, le parti ben possono pattuire un obbligo personale, configurabile quando il diritto attribuito sia previsto per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria (v. Cass. n. 1387/1981; Cass. n. 2651/2010, Cass. n. 8363/2011 e  Cass. n. 3091/2014).

Ad avviso del Collegio sussistono ragioni preferenziali che fanno propendere per l’adesione a questo secondo orientamento, a condizione, però, che l’obbligo personale derivante dalla “servitù irregolare” non risulti caratterizzato da un vincolo permanente nel tempo.

Le servitù irregolari possono, quindi, essere ritenute ammissibili in quanto siano configurate come il frutto di rapporti obbligatori atipici, e, quindi, come figure che rinvengono una loro legittimazione generale nel principio essenziale della libera iniziativa economica privata, nel riconoscimento della proprietà privata e delle correlate facoltà, nonché, più specificamente, nel principio dell’autonomia negoziale, che consente, entro i limiti imposti dalla legge, con particolare riferimento al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela (ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c.), la costituzione di diritti personali a contenuto obbligatorio che conferiscono ad un determinato soggetto la facoltà di ritrarre apposite utilità dal fondo di proprietà altrui esclusivamente per il perseguimento di un vantaggio della persona o delle persone riportate nel relativo atto costitutivo ma senza il conseguimento di un’utilità fondiaria in senso proprio. Da qui la conseguenza che nell’ipotesi di “servitù irregolare”, così come appena inquadrata, non è data, per la sua tutela, “actio in rem”, ma solo quella inerente al rapporto di natura obbligatoria in caso di inadempimento.

Il complesso di argomentazioni che precedono – dal quale discende l’incasellamento dell’istituto della “servitù irregolare” nell’ambito dei rapporti obbligatori atipici con esclusione di ogni connotato di realità — conduce, ad avviso del collegio, a riconoscere necessariamente allo stesso un carattere temporaneo, dovendosi considerare estranea al nostro ordinamento ed incompatibile con l’altrui diritto di proprietà la concezione di un’obbligazione personale di natura perpetua (che – se conclusa – sarebbe nulla), in quanto “disintegrerebbe” in modo temporalmente indefinito il diritto di proprietà dal suo contenuto economico (in tali termini si era pronunciata già la risalente Cass. n. 1056/1050, seguita, successivamente, da Cass. n. 4530/1984 e, più recentemente, da Cass. n. 193/2020), eliminandone la facoltà essenziale di poter godere pienamente del bene che ne costituisce oggetto

Anche in ambito successorio si è sostenuto che l’attribuzione patrimoniale gratuita di un bene con vincolo perpetuo di destinazione imposto dal disponente con clausola modale, è nulla per violazione dell’art. 1379 c.c., risultando eccessivamente compromesso il diritto di proprietà dell’onerato, i cui poteri dispositivi sul bene destinato a circolare, a pena di inadempimento, con il medesimo vincolo risulterebbero sostanzialmente sterilizzati “sine die” (cfr. Cass. n. 15240/2017).

Alla stregua del riferito impianto argomentativo non può, perciò, essere recepito il contrario principio sostenuto da un minoritario orientamento di questa Corte (manifestatosi, soprattutto, con la risalente sentenza n. 1911/1969), secondo cui, nell’esercizio del loro potere di autonomia, le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto in relazione anche alla durata di esso, nei limiti imposti dalla legge, la quale, in effetti, spesso limita la durata dei contratti tipici da essa regolati, ma, ove limiti non ne siano stabiliti, il contratto obbligatorio può essere anche voluto dai contraenti come perpetuo (tesi, questa, peraltro sostenuta anche da autorevole dottrina).

Deve, quindi, affermarsi l’applicabilità, nel nostro ordinamento, del principio della generale inammissibilità delle obbligazioni perpetue, il quale non consente ai soggetti la possibilità di vincolarsi senza alcun termine. Per converso, in consonanza con la prevalente dottrina, la perpetuità del diritto si giustifica soltanto dove non si ponga un problema di soggetti vincolati a tempo indeterminato, per essere, invece, questa la ragione essenziale dell’illimitatezza temporale della proprietà.